Commento al vangelo della IV Domenica di Pasqua (anno C) a cura di don Giulio Madeddu Nelle mani di Cristo buon pastore: custoditi dall’amore, liberi di restare

11 maggio 2025 – Quarta Domenica di Pasqua – Anno C

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 10,27-30)

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».


Le pecore ascoltano e seguono

La quarta domenica di Pasqua, tradizionalmente detta “del Buon Pastore”, ci riconduce al cuore del Vangelo di Giovanni, dove Gesù si presenta come colui che conosce, guida e dona la vita al suo gregge. «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono».

La relazione tra il pastore e le pecore è descritta con parole semplici, ma profondissime. Le pecore non seguono un’idea astratta, ma una voce viva. La fede, prima ancora che essere comprensione, è ascolto. È riconoscere una voce che chiama per nome, è imparare a seguirla anche nel buio, anche quando il cammino non è chiaro.

Questo ascolto genera il discepolato: seguire Gesù non per dovere, ma per fiducia, perché la sua voce ci riconcilia con noi stessi, ci orienta, ci guida verso la vita.

Il Pastore che conosce e dona la vita

Gesù non è solo un pastore che guida: è il Buon Pastore, che conosce ciascuno profondamente e dona la vita eterna. «Io le conosco»: è la conoscenza dell’amore, non del controllo. È il verbo biblico che indica intimità, cura, appartenenza.

«Io do loro la vita eterna»: la promessa non riguarda solo il futuro, ma una qualità di vita già ora: una vita che non finisce con la morte, che non può più essere perduta. «Non andranno perdute in eterno»: questa è la grande consolazione del Vangelo. In un mondo segnato dall’instabilità, Gesù offre la sicurezza dell’amore che non viene meno.

Nelle mani del Figlio, nelle mani del Padre

Il cuore del brano si concentra sull’immagine delle mani:
«Nessuno le strapperà dalla mia mano»;
«Nessuno può strapparle dalla mano del Padre»;
«Io e il Padre siamo una cosa sola».

Mettersi nelle mani di Cristo significa lasciarsi custodire da un amore che salva. Ma quelle mani, che tengono il gregge, sono anche mani trafitte: sono le mani che sulla croce hanno consegnato tutto. «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).

Il Pastore è anche il Figlio obbediente, che si affida al Padre fino alla fine. E, insieme, è anche l’Agnello immolato, che si è consegnato a noi, nel pane spezzato, nel sacrificio della croce. Noi ci affidiamo a Lui, ma Lui per primo si è affidato al Padre e si è donato a noi. È un amore che circola, che ci coinvolge, che ci abbraccia: il Figlio è nelle mani del Padre, e noi siamo nelle mani del Figlio. E in queste mani, nulla va perduto.

Ma questo non annulla la nostra libertà. Come ricorda Origene: «Nessuno, infatti, rapisce dalle sue mani, come è detto nel Vangelo secondo Giovanni: non è affatto scritto che, come nessuno rapisce, così nessuno cade dalle sue mani, perché il principio di autodeterminazione è libero. Allora io dico: certo nessuno rapirà qualcosa dalla mano del pastore, dalla mano di Dio nessuno può prenderci, ma noi stessi per negligenza possiamo cadere dalle sue mani» (Omelie su Geremia 18,3).

Le mani di Dio sono salde, ma rispettano la nostra libertà. Resta a noi scegliere ogni giorno di restare in esse, di fidarci, di lasciarci custodire.

Ascoltare, seguire, fidarsi.
Lasciarsi conoscere, custodire, salvare.
Essere nelle mani del Figlio, che si è consegnato per noi,
e ci tiene stretti come il Padre tiene Lui.

Non lasciamoci sfuggire da quelle mani che mai ci respingono.

Don Giulio Madeddu


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