L'intervista

Nella colonia penale: un film per raccontare una realtà spesso sconosciuta Isili, Mamone, Is Arenas e l'Asinara: il racconto dei quattro luoghi è valso un premio al Locarno Film Festival

Un riconoscimento importante, per un film che racconta una realtà spesso sconosciuta al pubblico, anche quello sardo dove le colonie penali sono ancora realtà. È stato premiato al Festival del cinema di Locarno con il Marco Zucchi Award il film Nella colonia penale, diretto da Gaetano Crivaro, Silvia Perra, Ferruccio Goia e Alberto Diana, con la produzione di Mommotti, progetto con sede a Cagliari, nella sezione Semaine de la Critique. Isili, Mamone, Is Arenas, L’Asinara: quattro realtà raccontate attraverso la vita quotidiana di detenuti, agenti e non solo, utili a riflettere e comprendere il concetto di controllo e detenzione.

La soddisfazione

«Siamo contenti e ancora emozionati già dal fatto di aver presentato il film al festival di Locarno, che è un punto di riferimento per il cinema europeo e mondiale e ancor di più soddisfatti per questo riconoscimento che premia il lavoro mio e dei colleghi registi Gaetano, Ferruccio e Silvia e della produzione di Mommotti – ha spiegato il regista Alberto Diana ai microfoni di Radio Kalaritana – Siamo molto soddisfatti del premio perché ci è stato conferito per l’innovazione al linguaggio cinematografico e perché la storia delle colonie penali è sconosciuta ai più. In tanti non sanno che in realtà in Italia e in Europa esistono ancora delle forme detentive di questo tipo che sono retaggio di un passato lontano, che ancora oggi rappresentano un’alternativa alla detenzione rispetto a quello che conosciamo».

Diana ha diretto i lavori della parte del film dedicata a L’Asinara, trasformata da colonia penale a riserva naturale. Catturando così un aspetto particolare di una realtà in cui sono gli animali oggi i protagonisti principali, osservati nel loro rapporto con l’uomo.

«All’Asinara sono passati gli ultimi 70-80 anni di storia d’Italia, forse anche di più in realtà, perché ricordiamo che oltre ad aver visto il passaggio di mafiosi, i brigatisti è stato luogo anche che ha ospitato, per esempio, i prigionieri etiopi, dopo la guerra coloniale italiana – ha spiegato Diana – Andando avanti con il nostro percorso abbiamo però deciso di raccontare l’Asinara e cosa sia oggi. Così, i protagonisti principali dell’episodio che conclude La colonia penale sono in qualche modo gli animali,  che sono rimasti dopo l’abbandono dell’istituzione penitenziaria e in qualche modo continuano a vivere sull’isola in contatto con l’uomo che porta avanti un programma di sorveglianza, di monitoraggio e in qualche modo anche di controllo e talvolta di repressione della fauna. Era interessante rapportare questo lavoro che fanno tantissimi operatori con il lavoro che viene fatto ancora oggi nelle colonie esistenti e in qualche modo inserirlo all’interno di un discorso collettivo».

Un lavoro collettivo per la collettività

Un lavoro collettivo di 85 minuti diviso in quattro parti, curata ognuna da un regista differente: Gaetano Crivaro si è occupato della colonia di Isili, Ferruccio Goia a Is Arenas, Silvia Perra invece ha girato a Mamone. Racconti che sono diventati però un tutt’uno per rappresentare al meglio i diversi aspetti di una realtà con sfumature differenti.

«Il lavoro è stato lungo, di 5 anni, dalla fase di scrittura fino alla presentazione pubblica. Ci siamo confrontati tanto e a lungo proprio su questi luoghi, anche perché abbiamo potuto accedere soltanto per brevi periodi di tempo – ha spiegato Diana – La cosa più importante che abbiamo rilevato nel corso dell’opera è che questi spazi, così apparentemente distanti, in realtà sono una diretta espressione della nostra società, perché al loro interno quello che accade è che la condizione del detenuto si sovrappone quasi totalmente alla condizione del lavoratore salariato. Da questa rilevazione abbiamo capito che la cosa più importante era raccontare il tempo della detenzione e il tempo del lavoro come se fossero in qualche modo la stessa cosa. È stata una scommessa, non solo dal punto di vista formale, raccontare inizialmente questi luoghi come se fossero aziende agricole e poi di detenzione. Parlare del carcere significa parlare anche della nostra società ed è indubbio – ha concluso Diana – che questi luoghi comunque rappresentino, pur avendo un passato controverso, un’alternativa rispetto al vuoto e alla condizione deplorevole in cui versano la maggior parte delle istituzioni carcerarie al giorno d’oggi in Italia e non solo».


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