fine vita

Suicidio assistito e verità: essere solidali significa custodire la dignità fino alla fine Stefano Mele riflette sul «caso Santi» e sul senso della libertà, tra compassione, fragilità e valore della vita

 

Ho appreso, come tutti, dai mezzi di comunicazione, scrupolosamente e strategicamente informati dall’associazione Luca Coscioni, che la giornalista Laura Santi ha ottenuto e portato a termine il suicidio assistito. Come altre volte, mi ha colpito la valanga di cuoricini con cui la gente ha voluto commentare la notizia. Nessuna faccina con la lacrima! Gli emoticon usati mi fanno pensare che sempre più si confondono le persone con le loro idee e le loro azioni, per cui se vuoi dimostrare comprensione, vicinanza e solidarietà non puoi mettere in discussione le loro scelte. Anche nei casi così drammatici sembra che a voler bene a chi sceglie di farla finita siano solo quelli che plaudono al gesto e concordano con quella scelta. Quanti sono dubbiosi o critici mancherebbero di comprensione e sono accusati di voler far soffrire le persone, di volerle condannare a vivere a tutti i costi. C’è chi contrappone due radicali e opposte fazioni: quella di chi intende imporre la propria misura di “vita dignitosa” agli altri e quella di chi accoglie senza riserve l’altrui soggettiva interpretazione della propria dignità. C’è persino chi, vergognosamente, augura ai primi di provare tutti i mali che sembrano non voler compatire, quasi che non siano già soggetti, come tutti, ai limiti, alle malattie, all’angoscia e alla morte.

Io penso che amare una persona non significhi darle sempre e comunque ragione, soprattutto quando pensa di non avere dignità, di essere di peso per i propri cari o la società, quando non trova motivi per apprezzare la sua vita e crede di non aver più nulla da dare. Penso che essere solidale con una persona non significhi lasciare che faccia o si faccia del male, soprattutto quando è un male radicale e definitivo. Non è davvero possibile in questo ambito la neutralità, la quale, se non significa per forza disinteresse, comunica involontariamente una conferma della svalutazione che l’altro attribuisce a sé stesso. Pare che la Sig.ra Santi si sia tenuta volontariamente lontana dagli amici, per evitare che tentassero di dissuaderla e di mostrarle il loro affetto, ciò che avrebbe potuto mettere in crisi il suo intento. Sarebbe stata una violenza il loro tentativo, rimasto solo ipotetico?

Nella lettera di addio aveva scritto: «qualsiasi vita resta degna di essere vissuta anche nelle condizioni più estreme, ma siamo noi a dover scegliere». In realtà la scelta di cui si parla non è mai disgiunta dalla situazione di malattia, sofferenza, solitudine, disperazione che le persone vivono. Se fosse un’esclusiva questione libertà, essa dovrebbe valere sempre, in ogni situazione di vita e quanti si sentirebbero di accettare questo principio come assoluto? Dovremmo dare la morte, come si sta proponendo ora in Olanda, anche a chi ritiene, dopo i 75 anni, “di aver completato la sua vita” o magari per altre ragioni soggettivamente trovate? D’altra parte la nostra libertà è sempre condizionata dalle persone con cui siamo in relazione e la concezione che abbiamo del nostro valore è influenzata dal valore che ci vediamo riconosciuto o meno dagli altri, i più vicini ma anche la società nel suo complesso. Se ad esempio si diffonde l’ammirazione per chi arriva a togliersi la vita, se si propone come una possibilità legale di essere aiutati a farlo, più che ampliare la libertà personale questo la condiziona fortemente. Lo hanno detto di recente e con chiarezza proprio alcuni malati gravi davanti alla Consulta, chiamata a decidere sulla costituzionalità dell’art. 579 del codice penale, che punisce l’omicidio del consenziente. Inoltre, è evidentemente contraddittorio pensare di affermare la propria libertà con la morte. Questa, in realtà, annulla la libertà perché elimina la persona che la esercita; come toglie, sì, la sofferenza, ma attraverso la soppressione del sofferente!

«Ricordatemi come una donna che ha amato la vita», ha scritto la Sig.ra Laura. Sono sicuro che è stato così, come per tanti malati che lottano quotidianamente per vivere al meglio, con la propria disabilità, disagio mentale, malattia cronica o terminale. Credo che da parte nostra, singolarmente e come società, da parte del Diritto, delle Istituzioni politiche e sanitarie, essere concretamente solidali significhi confermare la loro intrinseca e intangibile dignità, restituirgli la percezione non solo di essere amati ma anche capaci di amare e contribuire al bene comune. Credo che sostenerli debba significare fare ogni sforzo per lenire le sofferenze non solo fisiche, ma anche psicologiche, affettive, relazionali e spirituali. Questo oggi si può senza dubbio fare, grazie alle cure palliative, che si devono assicurare, far conoscere e far apprezzare di più, che si prendono cura dei malati, anche quando non possono guarire, in ogni ambito e aspetto della loro vita. Non è possibile una vita senza limiti e sofferenze, ma possiamo unirci e rafforzarci a vicenda (solidali dal latino solidus), per non essere schiacciati dall’angoscia, per non perdere mai il gusto della vita e godere di tutti i benefici che porta con sé, fino alla fine.

di Stefano Mele
docente di Bioetica 

alla Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna


Scopri di più da Kalaritana Media

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.